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La Grecia come frontiera. Di Matteo Nuzzi


Pubblichiamo un pezzo uscito sul D-La Repubblica delle donne, che ringraziamo.

Quasi trent’anni fa, la prima estate in cui cominciai a girare per le isole greche, mi ritrovai in una spiaggia di Patmos a cui si accedeva percorrendo una breve sterrata. Non c’era quasi nessuno in giro. Oltre a me e l’amico con cui ero partito, solo un piccolo gruppo di ragazzi greci che passavano le loro giornate sotto a una pergola di canne. Fra loro si distingueva una coppia di bellezza indimenticabile. Erano un po’ più grandi di noi appena usciti da scuola. Avevano corpi bruni, abbrustoliti dal sole e dal sale. Erano nudi e si muovevano come animali assonnati fra la sabbia e l’acqua. A un tratto il ragazzo si avviò verso una delle tende piantate dietro la fila di tamerici, tornò vestito di un paio di occhialini da piscina, passò con grazia e distacco una mano sulla schiena della ragazza seduta sul bagnasciuga e s’immerse.

Negli anni che seguirono, però, imparai che quella scena così spettacolare, benché unica nel suo genere, non raccontava affatto una dimensione fuori dall’ordinario in Grecia. In ogni isola in cui sono passato, da quelle allora completamente selvagge a quelle che già molti anni fa erano meta di orde di turisti, ho scovato spiagge, campi vicini al mare o addirittura grotte naturali, dove si creava ogni estate una sorta di comunità. Non solo giovani, peraltro. Tutti uniti da una flemma catartica, movimenti felini, corpi immersi nella sabbia e integrati nella natura, qualche bagno in mare per pulirsi dal caldo e dalla terra, libri che passano di mano in mano, tavole di backgammon che risuonano di dadi e nessun rumore, nessuna musica se non il canto delle cicale, un “canto di giglio” come lo definiva Omero, un frinire inesauribile, assieme alla leggera risacca, il vento che passa fra i pochi alberi, raramente il gorgoglio di una fonte che risuona, spesso le capre che passano e i pastori da cui a volte si compra il formaggio. Una dimensione di semplicità e rarefazione sconcertanti che non hanno nulla a che fare con un programma ideale, con uno spirito di rivalsa o di ribellione. Semmai con la liberazione dal superfluo, ma una liberazione non rivendicata, bensì spontanea.

Via via che gli anni passavano, abituandomi sempre più a questa condizione tipicamente greca, ho creduto di scoprire l’esistenza di un nesso sotterraneo con alcune tendenze filosofiche dell’antichità. Un nesso non completamente consapevole, ma quasi dettato dalla legge dell’Egeo: da quella luce sconcertante, impetuosa e calligrafica che disegna la terra riarsa nelle sue più impercettibili sfumature; da quel vento estivo chiamato meltemi che i turisti aborrono e che i greci conoscono fin dentro il loro cervello, un vento estremo, teso, eppure benevolo per chi ama il mare e lo naviga; da quel caldo di fuoco che brucia ogni cosa e a cui soltanto il timo, il ginepro e il lentisco sanno resistere; da quel mare freddo, spesso livido anche nel sole abbacinante, un “mare color del vino”, per usare un’altra espressione omerica.

Poi è arrivata la crisi. Da quasi un decennio i greci vivono una condizione di precarietà stabilizzata, una perdita completa di quelle certezze acquisite da gran parte del mondo occidentale e una drastica rivoluzione di abitudini e prospettive. Da quasi un decennio i giovani partono a cercar fortuna altrove e la città per eccellenza, quell’Atene che crebbe mostruosamente nell’urbanizzazione del dopoguerra, si svuota delle sue linfe più pregiate. Non soltanto all’estero, però. Sono moltissimi coloro che hanno scelto di tornare alla terra, ai paesi dove la vita è semplice e la solidarietà più spontanea, alle campagne dove è possibile coltivare un sogno autarchico, alla natura dove il rifiuto del superfluo e una relazione profonda con gli elementi è all’ordine del giorno. Ecco che quell’idea quasi esclusivamente estiva, disincantata, piena di flemma, di rifiuto temporaneo della velocità e delle norme dettate dal mondo dominato dall’idea di produttività tipicamente protestante e capitalista, è diventata in certi casi la norma.

Esperienze di molti generi si stanno reduplicando in questi anni complessi eppure pieni di dinamismo. Farcela da sé. Non dipendere dalle banche predatrici, nemiche, capaci solo di torturare i loro clienti. Basanizomai. Mi torturo. È uno dei graffiti più presenti sulle mura abbandonate della capitale che conta ancora la metà esatta della popolazione greca. Smettere di torturarsi. Questa la parola d’ordine. E assieme prendere la crisi per ciò che significa, ossia “scelta”, “decisione”. Se la strada precedente non funzionava, dev’essercene un’altra. E poco importa se la vita di comunità che assomigliano un po’ a certi antiche utopie hippie sono destinate a avere una vita breve o tumultuosa dopo i primi tempi di apparente idillio. Un altro mondo è possibile davvero. Lo hanno detto sempre i filosofi. Ossia coloro che amano (philein) il sapere, la saggezza (la sophia). E quale mondo è possibile oggi, fuori dal confronto serio e profondo con gli elementi e la loro forza? Quale mondo è possibile oggi fuori dalla discussione severa di abitudini sempre ritenute definitive che hanno improvvisamente mostrato, tutta insieme e violentemente, la loro debolezza. La Grecia resterà sempre una frontiera.


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