VOCI DAL PIREO
Canti di amore, malavita e tekès
regia: Dimitris Kotsiouros
musiche: Evì Evàn
coreografie:
Dimitris Evaggelou
video:
con:
Dimitris Kotsiouros
Georgios Strimpakos
Stefano Albarello
Vaghelis Merkouris
Davide Turolla
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“Il cuore mi ha spinto a scrivere la mia storia. Voglio leggerla dall’inizio alla fine come se fosse quella di un altro. Solo così mi libererò di quel peso che sento nel cuore per le stalagmiti che si sono composto nella mia vita. I cristiani dei primi tempi si confessavano con voce forte davanti a tutti e il popolo li perdonava; alleggerivano il loro cuore così”.
Markos Vamvakaris
Attraverso le pagine autobiografiche di Markos Vamvakaris, padre della musica rebetika, il nuovo spettacolo degli Evì Evàn conduce il pubblico a ritroso nella Grecia degli anni Venti, quando la guerra fra Turchi e Greci produsse la Katastrofì, uno spaventoso scambio di popolazioni che fece milioni di profughi e portò nelle periferie del Pireo, di Atene e Salonicco le tradizioni musicali dell’Asia Minore.
Intitolata “Voci dal Pireo”, la pièce di teatro canzone alterna i timbri orientali del bouzouki, del kanoun, del baglamas e dell’oud, alla voce narrante di Dimitris Kotsiouros. Un racconto che riavvolge il nastro del tempo fino ad aprirci le atmosfere della ricca e cosmopolita città di Smirne dove, a fine Ottocento, un giovane Onassis cominciava la sua carriera imprenditoriale fabbricando sigarette con cartine rosse, solo per donne. Nella “Ismir ghiaour”, la Smirne infedele come la chiamavano i Turchi, nascevano i primi tennis club femminili e la vita sul lungomare era dolce di profumi, colori, sapori. Il grande Teatro Kai, riproduzione della Scala di Milano, ospitava le opere liriche occidentali, ma allo stesso tempo nei Kafenìo si ascoltava una musica popolare che mescolava tradizioni armene, ebraiche, genovesi, parole francesi e veneziane.
Poi, nel 1922, tutto crollò. Fuggiti da Smirne abbandonando tutto dietro di sé tranne le tradizioni; esuli nella loro stessa patria, dove venivano percepiti come troppo orientali, i profughi greci iniziarono a dar vita a un’epopea musicale dei disgraziati. Canzoni e musiche che narravano gesta di personaggi leggendari come Tsakitzis, un brigante dell’Anatolia adorato sia dai Turchi che dai Greci perché distribuiva la refurtiva alle ragazze senza dote; oppure il dolore del ragazzo che implora il barcaiolo di condurlo al di là del Bosforo, dove ha lasciato la sua amata. Da questa cultura dell’esilio nacque il canto popolare urbano, il rebetiko, che si portava dietro le linee melodiche dell’Asia Minore, come il maqam, dal sapore così orientale per le orecchie nazionaliste del neo-stato Greco e le sue ambizioni di modernità e omologazione alla cultura occidentale, da venire addirittura proibito.
L’”ipocosmo” – quel mondo di diseredati, ladri, oppressi, emarginati - si incontrava nei tekès, i locali dove si fumava l’hascish, tollerati se rispettavano la regola della riservatezza che consisteva nel tenere la saracinesca mezza abbassata. Da lì saliva il timbro suadente del bouzouki, lo strumento a forma di lacrima che ha cantato le gioie e le disgrazie di un intero popolo diventandone il simbolo. All’epoca era uno strumento da postriboli e fu un giovane greco di Smirne immigrato a Chicago nel 1932 a renderlo celebre. John Gregoriou incise un disco da 78 giri per la Columbia records: nel lato A c’era “To minore tou tekè”, mentre nel lato B “Misirlou”, la canzone divenuta così celebre che Quentin Tarantino, con l’arrangiamento di Dick Dale, l’ha inserita nella colonna sonora di Pulp Fiction.
La forza di quelle sonorità meticce fu travolgente e diede vita al rebetiko con un’inondazione di nuovi ritmi - tsiftetelia, aivaliotika, sirta, tzivaeria, zeibekika – su cui grandi compositori cominciarono a scrivere alcuni dei più bei gioielli della musica popolare greca.
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